venerdì 27 giugno 2014

Troppi Chef

 


Quando Gianluigi Morini aprì, nel 1970, il suo San Domenico, con l’intenzione di proporre - novità nella ristorazione italianala - la “cucina di casa”, si rivolse al “cuoco dei re”, Nino Bergese, una vita trascorsa ai fornelli delle grandi famiglie italiane.
“La nostra è stata sempre una ristorazione anomala - spiega Gianluigi Morini -. Ho pensato al mio ristorante come a una casa, di conseguenza al personale di sala come personale di famiglia. Non ho istituito ruoli ben definiti, ma ho avuto la fortuna di lavorare sin dall’inizio con i fratelli Marcattilii, Natale responsabile della sala e Valentino in cucina. La nostra brigata di sala è composta da otto persone per un totale di trenta coperti. Ho sempre mantenuto questi numeri, per garantire la massima attenzione ad ogni tavolo. Il cameriere che segue un tavolo non si allontana mai, non va in cucina a prendere i piatti, ma c’è un cameriere addetto che fa la spola tra sala e cucina”.
Per il patron del San Domenico reperire buone professionalità per il comparto di sala non ha mai rappresentato un problema.
“Sarà forse perchè lavoriamo in una piccola città, ma siamo sempre riusciti ad avere ragazzi validi, che sono rimasti a lungo con noi, garantendo continuità e crescita professionale. Anche il rapporto con le due scuole alberghiere della zona è buono, abbiamo studenti che svolgono periodi di stage al San Domenico. Un problema però c’è: oggi si presta poca attenzione al curriculum, alle esperienze maturate, che invece sono fondamentali”. Il suggerimento di Morini è quello di fare esperienza all’estero.
“Sono fondamentali, aiutano a crescere. Noi abbiamo aperto il San Domenico a New York nel 1988, molti ragazzi sono transitati da lì: è un’esperienza che aiuta a forgiare il carattere, dà professionalità, regala esperienza. A New York la sera abbiamo 300 coperti, numeri diversi dai nostri: chi ci lavora impara tanto anche da questo”.

Si ricevono  curriculum solo  per la cucina, e un curriculum al mese per la sala. Questo dato fa capire il diverso interesse che i ragazzi nutrono per i due comparti. È la logica conseguenza della sovraesposizione mediatica che hanno oggi i cuochi”.
I Santini sono la grande famiglia della ristorazione italiana. Nel loro ristorante a Canneto sull’Oglio, tre stelle Michelin, lavorano, per ventotto coperti, venti persone. Sei sono componenti della famiglia: Antonio, direttore generale e responsabile del personale; Nadia, la moglie, chef; i figli Giovanni, chef e responsabile della ricerca e sviluppo e Alberto, responsabile dell’amministrazione e dell’organizzazione del lavoro; Valentina Tanzi, fidanzata di Giovanni, che cura la redazione dei menu, l’allestimento degli arredi ed è responsabile dei dettagli. E poi c’è Bruna, la memoria storica, in cucina al Pescatore dal 1952. Antonio Santini espone subito uno dei problemi che si ha oggi in sala: la mancanza di giovani pronti ad intraprendere questa carriera.
“Attenzione però, non è un problema tipicamente italiano. Marc Haeberlin, presidente dell’associazione Grandes Tables du monde, mi ha confermato che questa fenomeno è ancora più sentito in Francia”. Come intervenire? Andando all’origine del problema: nelle scuole. “È importante che negli istituti alberghieri, al momento della scelta del percorso formativo, sia comunicato agli studenti che c’è un sovrannumero di cuochi e un numero ridotto di personale di sala. Quando si sceglie il proprio percorso, bisogna guardarsi dentro e capire le proprie attitudini, ma anche valutare gli sbocchi lavorativi. Dobbiamo far capire ai ragazzi che è inutile che tutti scelgano la cucina, altrimenti c’è il rischio concreto che non trovino lavoro. Ma bisogna anche trasmettere un concetto che si è perso negli ultimi anni: il comparto di sala è fondamentale in un ristorante. Michel Guérard, grande cuoco, ha detto: quando la cucina è buona vale il 48%, se è cattiva vale il 100%”. La restante quota comprende tanti elementi: sala e servizio ne sono parte predominante. Come intendere allora il servizio oggi? “Bisogna rafforzare gli aspetti psicologici, intuire le aspettative della clientela, prevenirne le richieste. Essere gentili e sorridenti, stando attenti a non sovraccaricare il servizio, con un’invadenza eccessiva, senza però mai trascurare il cliente”. Anche secondo Antonio Santini l’esperienza all’estero è un passaggio importante. “Ma non bisogna farla solo per metterla a curriculum. Non serve a nulla fare un’esperienza di tre mesi in un paese. Bisogna restarci finchè non si ha la convinzione di aver capito gli aspetti fondamentali di una cucina e di un Paese e comunque bisogna fare esperienze di almeno un anno”.

Alla base c’è sempre l’IPSAAR, l’Istituto Professionale per le Attività Alberghiere e della Ristorazione (sono 250 in Italia). La scuola alberghiera, tanto bistrattata, bisognosa di nuovo slancio, di una riforma, di una connessione maggiore con la realtà odierna del comparto ristorativo e ricettivo. Conseguito il diploma, non si aprono molte possibilità per chi voglia continuare il percorso formativo del comparto di sala. Anzi, di specifico, non c’è proprio nulla.
La didattica negli istituti alberghieri si articola in cinque anni, con un orario settimanale di 36 ore. Nei primi due anni gli allievi frequentano le stesse materie, e sono previste 9 ore settimanali di pratica suddivise tra sala, cucina e ricevimento. Al termine del secondo anno i ragazzi sono chiamati a scegliere tra questi tre settori. Il terzo anno prevede 18 ore settimanali di pratica specifiche dell’indirizzo scelto. Alla sua conclusione gli studenti conseguono la qualifica di base, e possono scegliere se fare il biennio di specializzazione o terminare il proprio percorso scolastico.
Il biennio di specializzazione, più teorico, è suddiviso in due indirizzi: sala bar e cucina da una parte, ricevimento dall’altra. Negli ultimi quindici anni gli istituti alberghieri (così come gli altri istituti tecnici) si sono dotati di un importante strumento per avvicinare gli studenti al mondo lavorativo: sono gli stage, obbligatori per acquisire crediti scolastici, generalmente svolti in estate, a chiusura del quarto anno, all’interno di strutture ricettive o ristorative. Al termine del quinto anno, dopo la maturità, si consegue il diploma di tecnico dei servizi della ristorazione o tecnico dei servizi turistici. Poi, non resta che lavorare.

 Bisogna capire cosa ci si aspetta dagli istituti alberghieri. Il mondo del lavoro cerca la manualità, ma noi possiamo darla fino a un certo punto. A scuola si possono apprendere le tecniche, ma queste vanno perfezionate con la pratica. Noi diamo prerequisiti che vanno ampliati nella carriera lavorativa.
Il nostro obiettivo non è quello di insegnare a portare dei piatti, ma vogliamo trasmettere un abito interiore, la giusta mentalità ai ragazzi. Per raggiungere questo scopo non servono solo le tecniche manuali, ma una cultura generale di base e una cultura alimentare profonda”. A parlare così è Enrico Alloero, preside dell’istituto alberghiero Marco Polo di Genova, 1300 alunni iscritti. “In parte concordo con le critiche di Scabin -continua Alloero-. Bisogna però comprendere che i ragazzi di oggi sono molto diversi dai ragazzi di trent’anni fa.I ristoratori si aspettano ragazzi pronti, con buone capacità e poche pretese.
I ragazzi oggi hanno meno disposizione a farsi comandare, hanno una personalità più spiccata.
Per quanto riguarda la mancata presenza di professionisti nella scuola, anche questo aspetto è vero solo in parte, perchè esistono spazi dove i ragazzi entrano in contatto con i professionisti del settore. Ma siamo scuole pubbliche, i docenti vengono scelti sulla base di concorsi e graduatorie: questo può essere un limite da una parte, ma è anche garanzia dall’altra”.
Qual è l’identikit dello studente che sceglie la scuola alberghiera?
“A torto l’alberghiero è considerato una scuola più facile. Le iscrizioni dunque sono sempre numerose, anche perchè, e questo è vero, è una scuola che garantisce ottime possibilità di lavoro immediato. Purtroppo sono molti i ragazzi poco motivati, infatti abbiamo una scrematura importante al primo anno scolastico. Fino a qualche anno fa c’era una netta predominanza maschile, oggi invece la percentuale di iscritti tra i due sessi è praticamente identica. Negli ultimi anni, almeno nel nostro caso, registriamo una grande crescita di iscritti stranieri. Quando c’è da scegliere tra sala e cucina, circa il 60% opta per la cucina. La percentuale dovrebbe essere inversa, perchè è la sala a garantire maggiori possibilità d’impiego”.
 Antonio Montanari è docente del corso “Sistemi di ristorazione” all’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo, architetto e autore del libro Mangiare fuori. Logiche e tecniche della ristorazione italiana dall’osteria al fast food (edizioni Edifis).
“I sistemi di ristorazione studiano il percorso completo che ogni componente gastronomico deve subire per essere portato alla bocca del commensale. Nell’ambito di questo percorso c’è anche quello che viene definito comparto di sala- esordisce Antonio Montanari-. Il comparto di sala è uno dei momenti del processo globale della ristorazione. Considerare in crisi il comparto di sala è, secondo me, solo una parte della crisi, o meglio dell’evoluzione che oggi è in atto nella ristorazione. A mio parere non è corretto dire che il comparto di sala è in crisi perchè mancano i grandi maitre: forse è più corretto domandarsi qual è il modus attuale del servizio, ossia come sviluppare il comparto di sala. Non c’è più il maitre gallonato, il menu scritto in francese, la mise en place con quattro bicchieri e sette posate, ovvero gli elementi che facevano il comparto di sala trent’anni fa, ma c’è una cultura nuova e strumenti nuovi. C’è un modo nuovo di comunicare il cibo. La comunicazione del cibo deve avvenire attraverso una serie di elementi tra di loro legati: la conoscenza del percorso fatto dal prodotto, la preparazione, la cultura di tutto ciò che ci è dietro. Tutto quello che concerne e avviene in sala, dall’illuminazione ai colori, alla scelta della forma del piatto, al modo di servire deve essere coerente al sistema globale”.

 ALMA è il centro di formazione internazionale della cucina italiana guidata dal rettore d’eccezione Gualtiero Marchesi. È una scuola privata che ha sede a Colorno, con all’attivo, attualmente, tre corsi: il corso di cucina italiana, il corso di pasticceria e il corso di sommelier internazionale. A parte la figura del sommelier, dunque, il comparto di sala non ha un corso specifico di formazione. Perchè? Lo abbiamo chiesto ad Andrea Sinigaglia, responsabile della didattica di ALMA.
“La risposta, purtroppo, è semplice. Siamo una scuola privata, e per organizzare un corso abbiamo bisogno che ci sia una richiesta- spiega Andrea Sinigaglia-. Abbiamo cercato di organizzare corsi specifici dedicati alla sala, ma purtroppo in questo settore attualmente non c’è mercato. La figura del cameriere è svilita, non ha appeal verso i giovani. Ma è un aspetto che sta molto a cuore al rettore di Alma, Gualtiero Marchesi. Se la cucina è il luogo del saper fare, la sala evidenzia la capacità di far sapere. Negli ultimi anni Marchesi ha portato avanti una riflessione sul servizio in sala, optando per riportare davanti agli occhi del cliente alcune tecniche desuete, come il trancio e la torchiatura di certi piatti (celebre l’anatra al torchio). Il corso di sommellerie, nato lo scorso anno, è stato un modo utile per entrare nell’ambito del servizio, un punto di partenza per abbracciare in futuro tutto il comparto di sala”. Quale può essere il punto di svolta per l’attuale stagnazione del comparto di sala, allora? Sinigaglia propone la sua ricetta. “Quello che è importante, e che noi abbiamo a cuore, è che nasca un movimento di una decina di giovani e bravi maitre, persone in grado di mettere in campo un nuovo movimento, una nuova elettricità, figure con le quali iniziare un dialogo, avanzare idee per ridare appeal e piacevolezza a questo lavoro che storicamente appartiene alla cultura gastronomica italiana. Noi abbiamo già interpellato alcune figure di rilievo, per collaborare a qualcosa di concreto. Penso a Adriano Fumis, oste del Gellius di Oderzo; Raffaele Alaimo delle Calandre; Simone Pinoli e Umberto Giraudo della Pergola di Roma; Carlo Pierato, maitre dell’Anteprima di Chiuduno; Carlo Sacco, direttore di sala del Piccolo Lago di Verbania; Gianfranco Bolognesi, patron della Frasca di Milano Marittima; Giancarlo Grassi, maitre sommelier dell’Antica Osteria del Teatro di Piacenza; Roberto Stroppiana, responsabile di sala del ristorante Piazza Duomo di Alba. Ci candidiamo, insomma, ad essere luogo di dialogo e incontro per chi voglia dare il suo contributo alla rinascita del comparto di sala”.

L’AMIRA (Associazione Maitres Italiani Ristoranti ed Alberghi) è nata nel 1955 presso il Ristorante Savini di Milano, su idea dell’allora direttore di sala Guido Ferniani. L’associazione, presieduta da Raffaello Speri, conta su un’organizzazione di 50 sezioni in Italia, più alcune rappresentanze all’estero, e circa 4000 soci. Noi abbiamo interpellato Giacomo Rubini, vicepresidente nazionale.
“L’associazione svolge corsi in tutta Italia allo scopo di qualificare i nostri maitre a 360 gradi. La ristorazione, negli ultimi venti anni, ha avuto un’evoluzione impressionante. Oggi l’operatore di sala deve possedere una conoscenza vastissima del cibo e delle bevande. Occorre dunque un aggiornamento continuo, ed è quello che che l’AMIRA ha fatto in questi anni, cercando di restare al passo coi tempi. Ad esempio, ultimamente in seno all’associazione è stata registrata la figura del maitre sommelier, professionalità sempre più richiesta”.
Anche Giacomo Rubini concorda sulla difficoltà di attrarre giovani al comparto di sala. “È sempre più difficile trovare personale. Il cameriere viene associato al verbo servire. La sua figura, invece, non può essere ridotta a questo, occorre aggiungere altri verbi per definirla: agevolare, consigliare, conversare, interagire, mettere a proprio agio, sapere, vezzeggiare e, ultimo, ma importantissimo, sorridere. Oggi gli chef hanno tutte le attenzioni perchè hanno occupato anche la sala, e ora si lamentano che manca il servizio. Con la porzionatura in cucina, i piatti escono finiti: allora non si trova più chi sa diliscare, chi sa tranciare, chi sa cuocere alla lampada in sala. Nei nostri corsi queste tecniche le trasmettiamo: un commensale quando è a tavola vuole essere coinvolto anche a livello scenico”.
Quali sono le altre differenze rispetto al passato?
“Il maitre un tempo era la figura più rispettata, era il padrone di casa, e aveva sotto di sé brigate di sala molto ampie, anche di 30 - 40 componenti. Oggi le brigate si sono ridotte notevolmente, e il maitre deve avere altre doti. Deve conoscere l’informatica, avere ottima cultura generale, conoscere le maggiori lingue straniere, essere un manager. Il percorso inizia dalla scuola. È vero che la formazione alberghiera è sempre stata considerata di serie B, ma un buon maitre deve avere anche solide basi teoriche. Poi ci sono le doti fondamentali di un maitre, che sono rimaste invariate: l’umiltà prima di tutto, un grande savoir faire, una grande capacità psicologica nel comprendere il cliente”.

 Già: queste quattro componenti devono avere pari dignità. Non credo che la cucina pesi, nella valutazione di un ristorante, il 70%, e le altre componenti, assieme, il 30%. Se gli stessi addetti ai lavori hanno questa visione della ristorazione, come si possono motivare i ragazzi che stanno iniziando il loro percorso formativo o lavorativo nel comparto di sala?”.
Luca Vissani, maitre e sommelier del ristorante Casa Vissani, è chiaro. “La sala svolge il compito di ineguagliabile filtro tra la cucina e il cliente, rappresenta davvero la marcia in più per un locale. Eppure nelle scuole alberghiere la voce “sala” sta quasi scomparendo. È un processo naturale, visto che tutte le attenzioni sono per i cuochi. Perchè un ragazzo dovrebbe scegliere la sala? Dobbiamo invece rivalutarne il ruolo, motivare i ragazzi. E non ci si può limitare ad inventare qualche nome. L’idea del conviver è valida, ma non bisogna fare l’errore di credere che con questo nome sia mutato il ruolo del cameriere, sia cambiato il sistema. Finchè il cameriere, nell’immaginario, resta un lavoro part time, che possono svolgere i ragazzi per farsi un po’ di soldi, senza nessuna professionalità, il settore resterà bloccato e a essere danneggiati saranno soprattutto quei ragazzi spinti da forte motivazione”.
Allora, quali consigli dare ai ragazzi che hanno passione per il servizio?
“Oggi i giovani, che sia sala o cucina, vogliono fare esperienza solo nei locali stellati. La gavetta, che è fondamentale, non si crea solo o prevalentemente nei locali stellati.
Il mio consiglio è di aggiornarsi continuamente, andando in giro, studiando. Ma soprattutto imparare il galateo, le regole antiche del buon servizio. Probabilmente il galateo può essere alleggerito, svecchiato nelle sue parti anacronistiche, ma bisogna conoscerlo a fondo, perchè rappresenta la base del nostro lavoro”.

  Quanto è importante il comparto di sala?
“È fondamentale. Quando un piatto è tecnicamente perfetto, quando ha il gusto che lo chef vuole e cerca, con la giusta acidità, il giusto punto di sale, la giusta consistenza, stop, è perfetto, si mette in produzione. Se un cliente non lo ama, penso che non ha scelto bene. Questo non si può dire del servizio, che magari è perfetto per un tavolo, ma non marcia bene per un altro. Tutti i giorni bisogna registrare qualcosa, aumentare il proprio livello di sensibilità. Qualche volta guardo la sala da fuori, nascosto: è come un teatro. Tutte le sere nel mio ristorante si va a fare una rappresentazione, ma l’attore non è la cucina, gli attori sono i clienti. C’è il servizio, ci sono i piatti, ma ogni tavolo è una rappresentazione. In sala si va a creare qualcosa che non è scritto sul libro, è senza ricetta, è una creazione tutti i giorni differente. Certo ci sono regole di base, l’accoglienza, la mise en place, le temperature di servizio del vino, ma tu puoi anche rispettare tutte le regole e fare un servizio sbagliato. Il cliente è il centro dell’opera, e l’opera deve essere intorno al cliente. Altrimenti è solo metodo, come quello dei fast food. Il servizio può essere perfetto, ma si capisce che è un format; è un grande servizio, ma non è fatto per il cliente. La magia si crea in sala, non in cucina”.

       Da più parti è finita sotto accusa la pratica della porzionatura.
“Se oggi io tento, come sto facendo, di impostare piatti che devono essere finiti al tavolo, sapete che difficoltà ci sono? E non parlo di un’anatra al torchio. Lasciamo stare la poesia. Se un cliente mi chiede un insalata servita al tavolo, vi garantisco che è già un problema. Un tempo c’erano maitre che se il cuoco stava male durante il servizio, si toglievano lo smoking, si mettevano il grembiule e sostituivano il cuoco. Il maitre era un cuoco che non cucinava, ma che sapeva parlare, sapeva presentare.Il cuoco mediamente aveva la pancia, i capelli unti e non parlava; poi gli chef hanno cominciato a viaggiare, a imparare l’inglese, a saper comunicare, a saper stare davanti a una telecamera, e c’è stata una rivoluzione: gli chef sono usciti dalla cucina. Anche troppo”.

      Tutti hanno sostenuto l’importanza di esperienze all’estero.
“È vero. Ma il mio consiglio, per maitre e cuochi, è di non fare subito le grandi case estere, perchè prima bisogna maturare una propria capacità di vedere le cose. Quando si hanno le capacità di capire e selezionare, allora si possono fare le case estere, altrimenti c’è il rischio di avere troppo imprinting da copia e incolla, si rischia di non aver la propria personalità. Per il servizio, il riferimento rimane la Francia, certamente, dove tu puoi vedere una certa scuola, una certa organizzazione, un certo rispetto. Meno importante la Spagna, dove anche a livello alto il servizio è troppo easy. Poi Inghilterra, che è sempre una piazza importante, e Stati Uniti, dove come in nessun altro Paese occorre sviluppare una testa da manager, e dove si trova, a tutti i livelli, un bel servizio, svolto con piacevolezza, sorriso, cortesia. Infine, un passaggio nel sud est asiatico: lo stile orientale del servizio ha un’eleganza assoluta, anche se per noi è fin quasi eccessivo, esagerato”.

      In Italia, chi è al top nel servizio?

“In Italia ci sono ancora due o tre stili. Uno è quello del Pescatore, la maison italiana per antonomasia. Poi c’è lo stile della Pergola, gli unici in Italia ad aver scritto un libro”.

      Qual è lo stile di Davide Scabin?
“Il mio è uno stile Combal. Fa attenzione a non essere nè troppo serio nè troppo alla spagnola. Io credo che sia una buona interpretazione contemporanea del servizio. E abbiamo un sistema per gli errori. Non è vero che più si sale di livello, meno errori si fanno. Bisogna però avere un sistema per trattarli. Fare l’errore non è mai il problema, è sempre la gestione dell’errore l’importante. Il mio motto per il 2009, che vale per ogni componente del ristorante è: quando si vuole ottenere un certo livello di perfezione, cambiare cento dettagli solamente dell’1% è più efficace e difficile che cambiare un solo particolare del 100%”.

      Quali sono gli errori più gravi commessi in sala?
“Gli errori gravi sono quando qualcuno fa una domanda, su un piatto, su una materia prima, e il cameriere non sa rispondere: significa che non sa cosa sta portando, cosa sta consigliando. L’errore grave è quando non si sa trattare la situazione, non si sa trattare un errore. Mantenere la concentrazione è la cosa primaria, la formazione allo stress psicologico è un allenamento fondamentale”.

      In quale direzione andrà lo stile italiano del servizio?
“Innanzitutto, visto che gli uomini stanno lasciando degli spazi vuoti, è un comparto dove le donne si stanno affermando molto velocemente. Se la visione tradizionale francese tende a ostruire lo sviluppo della donna in sala, almeno a grande livello, in Italia il servizio di sala è molto sbilanciato verso un futuro femminile. Secondo me, nel creare lo stile italiano, il cliente deve percepire che nel servizio ci sono diversi ruoli, ma che tutti sono importanti, che tutti vanno a comporre un puzzle, un sistema. È la differenza, in architettura, che c’è tra una casa divisa in stanze e un loft, dove c’è un open space che ha differenti architetture nello stesso spazio tra loro armonizzate. Questa è la mia visione: non c’è più il maitre, il sommelier, le commis, c’è il sommelier che, con un bel sorriso, può anche servire un piatto. È uno stile molto difficile: è più facile gestire uno staff con divisioni ben precise; mescolare i ruoli è più complicato. C’è qualcuno che può fare qualcosa in più, ma tutti sono importanti. Io penso che la nouvelle vague italiana possa iniziare da qui: allora si può creare un nuovo pensiero della sala. Noi dobbiamo creare lo stile italiano, non possiamo copiare lo stile francese”.
 

Nessun commento:

Posta un commento