Troppi Chef
Quando Gianluigi Morini aprì, nel 1970, il suo San Domenico, con
l’intenzione di proporre - novità nella ristorazione italianala - la
“cucina di casa”, si rivolse al “cuoco dei re”, Nino Bergese, una vita
trascorsa ai fornelli delle grandi famiglie italiane.
“La nostra è stata sempre una ristorazione anomala - spiega Gianluigi
Morini -. Ho pensato al mio ristorante come a una casa, di conseguenza
al personale di sala come personale di famiglia. Non ho istituito ruoli
ben definiti, ma ho avuto la fortuna di lavorare sin dall’inizio con i
fratelli Marcattilii, Natale responsabile della sala e Valentino in
cucina. La nostra brigata di sala è composta da otto persone per un
totale di trenta coperti. Ho sempre mantenuto questi numeri, per
garantire la massima attenzione ad ogni tavolo. Il cameriere che segue
un tavolo non si allontana mai, non va in cucina a prendere i piatti, ma
c’è un cameriere addetto che fa la spola tra sala e cucina”.
Per il patron del San Domenico reperire buone professionalità per il comparto di sala non ha mai rappresentato un problema.
“Sarà forse perchè lavoriamo in una piccola città, ma siamo sempre
riusciti ad avere ragazzi validi, che sono rimasti a lungo con noi,
garantendo continuità e crescita professionale. Anche il rapporto con le
due scuole alberghiere della zona è buono, abbiamo studenti che
svolgono periodi di stage al San Domenico. Un problema però c’è: oggi si
presta poca attenzione al curriculum, alle esperienze maturate, che
invece sono fondamentali”. Il suggerimento di Morini è quello di fare
esperienza all’estero.
“Sono fondamentali, aiutano a crescere. Noi abbiamo aperto il San
Domenico a New York nel 1988, molti ragazzi sono transitati da lì: è
un’esperienza che aiuta a forgiare il carattere, dà professionalità,
regala esperienza. A New York la sera abbiamo 300 coperti, numeri
diversi dai nostri: chi ci lavora impara tanto anche da questo”.
Si ricevono curriculum solo per la cucina, e un curriculum al
mese per la sala. Questo dato fa capire il diverso interesse che i
ragazzi nutrono per i due comparti. È la logica conseguenza della
sovraesposizione mediatica che hanno oggi i cuochi”.
I Santini sono la grande famiglia della ristorazione italiana. Nel loro
ristorante a Canneto sull’Oglio, tre stelle Michelin, lavorano, per
ventotto coperti, venti persone. Sei sono componenti della famiglia:
Antonio, direttore generale e responsabile del personale; Nadia, la
moglie, chef; i figli Giovanni, chef e responsabile della ricerca e
sviluppo e Alberto, responsabile dell’amministrazione e
dell’organizzazione del lavoro; Valentina Tanzi, fidanzata di Giovanni,
che cura la redazione dei menu, l’allestimento degli arredi ed è
responsabile dei dettagli. E poi c’è Bruna, la memoria storica, in
cucina al Pescatore dal 1952. Antonio Santini espone subito uno dei
problemi che si ha oggi in sala: la mancanza di giovani pronti ad
intraprendere questa carriera.
“Attenzione però, non è un problema tipicamente italiano. Marc
Haeberlin, presidente dell’associazione Grandes Tables du monde, mi ha
confermato che questa fenomeno è ancora più sentito in Francia”. Come
intervenire? Andando all’origine del problema: nelle scuole. “È
importante che negli istituti alberghieri, al momento della scelta del
percorso formativo, sia comunicato agli studenti che c’è un sovrannumero
di cuochi e un numero ridotto di personale di sala. Quando si sceglie
il proprio percorso, bisogna guardarsi dentro e capire le proprie
attitudini, ma anche valutare gli sbocchi lavorativi. Dobbiamo far
capire ai ragazzi che è inutile che tutti scelgano la cucina, altrimenti
c’è il rischio concreto che non trovino lavoro. Ma bisogna anche
trasmettere un concetto che si è perso negli ultimi anni: il comparto di
sala è fondamentale in un ristorante. Michel Guérard, grande cuoco, ha
detto: quando la cucina è buona vale il 48%, se è cattiva vale il 100%”.
La restante quota comprende tanti elementi: sala e servizio ne sono
parte predominante. Come intendere allora il servizio oggi? “Bisogna
rafforzare gli aspetti psicologici, intuire le aspettative della
clientela, prevenirne le richieste. Essere gentili e sorridenti, stando
attenti a non sovraccaricare il servizio, con un’invadenza eccessiva,
senza però mai trascurare il cliente”. Anche secondo Antonio Santini
l’esperienza all’estero è un passaggio importante. “Ma non bisogna farla
solo per metterla a curriculum. Non serve a nulla fare un’esperienza di
tre mesi in un paese. Bisogna restarci finchè non si ha la convinzione
di aver capito gli aspetti fondamentali di una cucina e di un Paese e
comunque bisogna fare esperienze di almeno un anno”.
Alla base c’è sempre l’IPSAAR,
l’Istituto Professionale per le Attività Alberghiere e della
Ristorazione (sono 250 in Italia). La scuola alberghiera, tanto
bistrattata, bisognosa di nuovo slancio, di una riforma, di una
connessione maggiore con la realtà odierna del comparto ristorativo e
ricettivo. Conseguito il diploma, non si aprono molte possibilità per
chi voglia continuare il percorso formativo del comparto di sala. Anzi,
di specifico, non c’è proprio nulla.
La didattica negli istituti alberghieri si articola in cinque anni, con
un orario settimanale di 36 ore. Nei primi due anni gli allievi
frequentano le stesse materie, e sono previste 9 ore settimanali di
pratica suddivise tra sala, cucina e ricevimento. Al termine del secondo
anno i ragazzi sono chiamati a scegliere tra questi tre settori. Il
terzo anno prevede 18 ore settimanali di pratica specifiche
dell’indirizzo scelto. Alla sua conclusione gli studenti conseguono la
qualifica di base, e possono scegliere se fare il biennio di
specializzazione o terminare il proprio percorso scolastico.
Il biennio di specializzazione, più teorico, è suddiviso in due
indirizzi: sala bar e cucina da una parte, ricevimento dall’altra. Negli
ultimi quindici anni gli istituti alberghieri (così come gli altri
istituti tecnici) si sono dotati di un importante strumento per
avvicinare gli studenti al mondo lavorativo: sono gli stage, obbligatori
per acquisire crediti scolastici, generalmente svolti in estate, a
chiusura del quarto anno, all’interno di strutture ricettive o
ristorative. Al termine del quinto anno, dopo la maturità, si consegue
il diploma di tecnico dei servizi della ristorazione o tecnico dei
servizi turistici. Poi, non resta che lavorare.
Bisogna capire cosa ci si aspetta dagli istituti alberghieri. Il mondo
del lavoro cerca la manualità, ma noi possiamo darla fino a un certo
punto. A scuola si possono apprendere le tecniche, ma queste vanno
perfezionate con la pratica. Noi diamo prerequisiti che vanno ampliati
nella carriera lavorativa.
Il nostro obiettivo non è quello di insegnare a portare dei piatti, ma
vogliamo trasmettere un abito interiore, la giusta mentalità ai ragazzi.
Per raggiungere questo scopo non servono solo le tecniche manuali, ma
una cultura generale di base e una cultura alimentare profonda”. A
parlare così è Enrico Alloero, preside dell’istituto alberghiero Marco
Polo di Genova, 1300 alunni iscritti. “In parte concordo con le critiche
di Scabin -continua Alloero-. Bisogna però comprendere che i ragazzi di
oggi sono molto diversi dai ragazzi di trent’anni fa.I ristoratori si
aspettano ragazzi pronti, con buone capacità e poche pretese.
I ragazzi oggi hanno meno disposizione a farsi comandare, hanno una personalità più spiccata.
Per quanto riguarda la mancata presenza di professionisti nella scuola,
anche questo aspetto è vero solo in parte, perchè esistono spazi dove i
ragazzi entrano in contatto con i professionisti del settore. Ma siamo
scuole pubbliche, i docenti vengono scelti sulla base di concorsi e
graduatorie: questo può essere un limite da una parte, ma è anche
garanzia dall’altra”.
Qual è l’identikit dello studente che sceglie la scuola alberghiera?
“A torto l’alberghiero è considerato una scuola più facile. Le
iscrizioni dunque sono sempre numerose, anche perchè, e questo è vero, è
una scuola che garantisce ottime possibilità di lavoro immediato.
Purtroppo sono molti i ragazzi poco motivati, infatti abbiamo una
scrematura importante al primo anno scolastico. Fino a qualche anno fa
c’era una netta predominanza maschile, oggi invece la percentuale di
iscritti tra i due sessi è praticamente identica. Negli ultimi anni,
almeno nel nostro caso, registriamo una grande crescita di iscritti
stranieri. Quando c’è da scegliere tra sala e cucina, circa il 60% opta
per la cucina. La percentuale dovrebbe essere inversa, perchè è la sala a
garantire maggiori possibilità d’impiego”.
Antonio Montanari è docente del corso “Sistemi di ristorazione”
all’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo, architetto e autore
del libro Mangiare fuori. Logiche e tecniche della ristorazione
italiana dall’osteria al fast food (edizioni Edifis).
“I sistemi di ristorazione studiano il percorso completo che ogni
componente gastronomico deve subire per essere portato alla bocca del
commensale. Nell’ambito di questo percorso c’è anche quello che viene
definito comparto di sala- esordisce Antonio Montanari-. Il comparto di
sala è uno dei momenti del processo globale della ristorazione.
Considerare in crisi il comparto di sala è, secondo me, solo una parte
della crisi, o meglio dell’evoluzione che oggi è in atto nella
ristorazione. A mio parere non è corretto dire che il comparto di sala è
in crisi perchè mancano i grandi maitre: forse è più corretto
domandarsi qual è il modus attuale del servizio, ossia come sviluppare
il comparto di sala. Non c’è più il maitre gallonato, il menu scritto in
francese, la mise en place con quattro bicchieri e sette posate, ovvero
gli elementi che facevano il comparto di sala trent’anni fa, ma c’è una
cultura nuova e strumenti nuovi. C’è un modo nuovo di comunicare il
cibo. La comunicazione del cibo deve avvenire attraverso una serie di
elementi tra di loro legati: la conoscenza del percorso fatto dal
prodotto, la preparazione, la cultura di tutto ciò che ci è dietro.
Tutto quello che concerne e avviene in sala, dall’illuminazione ai
colori, alla scelta della forma del piatto, al modo di servire deve
essere coerente al sistema globale”.
ALMA è il centro di formazione internazionale della cucina italiana
guidata dal rettore d’eccezione Gualtiero Marchesi. È una scuola privata
che ha sede a Colorno, con all’attivo, attualmente, tre corsi: il corso
di cucina italiana, il corso di pasticceria e il corso di sommelier
internazionale. A parte la figura del sommelier, dunque, il comparto di
sala non ha un corso specifico di formazione. Perchè? Lo abbiamo chiesto
ad Andrea Sinigaglia, responsabile della didattica di ALMA.
“La risposta, purtroppo, è semplice. Siamo una scuola privata, e per
organizzare un corso abbiamo bisogno che ci sia una richiesta- spiega
Andrea Sinigaglia-. Abbiamo cercato di organizzare corsi specifici
dedicati alla sala, ma purtroppo in questo settore attualmente non c’è
mercato. La figura del cameriere è svilita, non ha appeal verso i
giovani. Ma è un aspetto che sta molto a cuore al rettore di Alma,
Gualtiero Marchesi. Se la cucina è il luogo del saper fare, la sala
evidenzia la capacità di far sapere. Negli ultimi anni Marchesi ha
portato avanti una riflessione sul servizio in sala, optando per
riportare davanti agli occhi del cliente alcune tecniche desuete, come
il trancio e la torchiatura di certi piatti (celebre l’anatra al
torchio). Il corso di sommellerie, nato lo scorso anno, è stato un modo
utile per entrare nell’ambito del servizio, un punto di partenza per
abbracciare in futuro tutto il comparto di sala”. Quale può essere il
punto di svolta per l’attuale stagnazione del comparto di sala, allora?
Sinigaglia propone la sua ricetta. “Quello che è importante, e che noi
abbiamo a cuore, è che nasca un movimento di una decina di giovani e
bravi maitre, persone in grado di mettere in campo un nuovo movimento,
una nuova elettricità, figure con le quali iniziare un dialogo, avanzare
idee per ridare appeal e piacevolezza a questo lavoro che storicamente
appartiene alla cultura gastronomica italiana. Noi abbiamo già
interpellato alcune figure di rilievo, per collaborare a qualcosa di
concreto. Penso a Adriano Fumis, oste del Gellius di Oderzo; Raffaele
Alaimo delle Calandre; Simone Pinoli e Umberto Giraudo della Pergola di
Roma; Carlo Pierato, maitre dell’Anteprima di Chiuduno; Carlo Sacco,
direttore di sala del Piccolo Lago di Verbania; Gianfranco Bolognesi,
patron della Frasca di Milano Marittima; Giancarlo Grassi, maitre
sommelier dell’Antica Osteria del Teatro di Piacenza; Roberto
Stroppiana, responsabile di sala del ristorante Piazza Duomo di Alba. Ci
candidiamo, insomma, ad essere luogo di dialogo e incontro per chi
voglia dare il suo contributo alla rinascita del comparto di sala”.
L’AMIRA (Associazione Maitres Italiani Ristoranti ed Alberghi) è nata
nel 1955 presso il Ristorante Savini di Milano, su idea dell’allora
direttore di sala
Guido Ferniani. L’associazione,
presieduta da Raffaello Speri, conta su un’organizzazione di 50 sezioni
in Italia, più alcune rappresentanze all’estero, e circa 4000 soci. Noi
abbiamo interpellato Giacomo Rubini, vicepresidente nazionale.
“L’associazione svolge corsi in tutta Italia allo scopo di qualificare i
nostri maitre a 360 gradi. La ristorazione, negli ultimi venti anni, ha
avuto un’evoluzione impressionante. Oggi l’operatore di sala deve
possedere una conoscenza vastissima del cibo e delle bevande. Occorre
dunque un aggiornamento continuo, ed è quello che che l’AMIRA ha fatto
in questi anni, cercando di restare al passo coi tempi. Ad esempio,
ultimamente in seno all’associazione è stata registrata la figura del
maitre sommelier, professionalità sempre più richiesta”.
Anche
Giacomo Rubini concorda sulla difficoltà di
attrarre giovani al comparto di sala. “È sempre più difficile trovare
personale. Il cameriere viene associato al verbo servire. La sua figura,
invece, non può essere ridotta a questo, occorre aggiungere altri verbi
per definirla: agevolare, consigliare, conversare, interagire, mettere a
proprio agio, sapere, vezzeggiare e, ultimo, ma importantissimo,
sorridere. Oggi gli chef hanno tutte le attenzioni perchè hanno occupato
anche la sala, e ora si lamentano che manca il servizio. Con la
porzionatura in cucina, i piatti escono finiti: allora non si trova più
chi sa diliscare, chi sa tranciare, chi sa cuocere alla lampada in sala.
Nei nostri corsi queste tecniche le trasmettiamo: un commensale quando è
a tavola vuole essere coinvolto anche a livello scenico”.
Quali sono le altre differenze rispetto al passato?
“Il maitre un tempo era la figura più rispettata, era il padrone di
casa, e aveva sotto di sé brigate di sala molto ampie, anche di 30 - 40
componenti. Oggi le brigate si sono ridotte notevolmente, e il maitre
deve avere altre doti. Deve conoscere l’informatica, avere ottima
cultura generale, conoscere le maggiori lingue straniere, essere un
manager. Il percorso inizia dalla scuola. È vero che la formazione
alberghiera è sempre stata considerata di serie B, ma un buon maitre
deve avere anche solide basi teoriche. Poi ci sono le doti fondamentali
di un maitre, che sono rimaste invariate: l’umiltà prima di tutto, un
grande savoir faire, una grande capacità psicologica nel comprendere il
cliente”.
Già: queste quattro componenti devono avere pari dignità. Non credo che
la cucina pesi, nella valutazione di un ristorante, il 70%, e le altre
componenti, assieme, il 30%. Se gli stessi addetti ai lavori hanno
questa visione della ristorazione, come si possono motivare i ragazzi
che stanno iniziando il loro percorso formativo o lavorativo nel
comparto di sala?”.
Luca Vissani, maitre e sommelier del ristorante Casa Vissani, è chiaro.
“La sala svolge il compito di ineguagliabile filtro tra la cucina e il
cliente, rappresenta davvero la marcia in più per un locale. Eppure
nelle scuole alberghiere la voce “sala” sta quasi scomparendo. È un
processo naturale, visto che tutte le attenzioni sono per i cuochi.
Perchè un ragazzo dovrebbe scegliere la sala? Dobbiamo invece
rivalutarne il ruolo, motivare i ragazzi. E non ci si può limitare ad
inventare qualche nome. L’idea del conviver è valida, ma non bisogna
fare l’errore di credere che con questo nome sia mutato il ruolo del
cameriere, sia cambiato il sistema. Finchè il cameriere,
nell’immaginario, resta un lavoro part time, che possono svolgere i
ragazzi per farsi un po’ di soldi, senza nessuna professionalità, il
settore resterà bloccato e a essere danneggiati saranno soprattutto quei
ragazzi spinti da forte motivazione”.
Allora, quali consigli dare ai ragazzi che hanno passione per il servizio?
“Oggi i giovani, che sia sala o cucina, vogliono fare esperienza solo
nei locali stellati. La gavetta, che è fondamentale, non si crea solo o
prevalentemente nei locali stellati.
Il mio consiglio è di aggiornarsi continuamente, andando in giro,
studiando. Ma soprattutto imparare il galateo, le regole antiche del
buon servizio. Probabilmente il galateo può essere alleggerito,
svecchiato nelle sue parti anacronistiche, ma bisogna conoscerlo a
fondo, perchè rappresenta la base del nostro lavoro”.
Quanto è importante il comparto di sala?
“È fondamentale. Quando un piatto è tecnicamente perfetto, quando ha il
gusto che lo chef vuole e cerca, con la giusta acidità, il giusto punto
di sale, la giusta consistenza, stop, è perfetto, si mette in
produzione. Se un cliente non lo ama, penso che non ha scelto bene.
Questo non si può dire del servizio, che magari è perfetto per un
tavolo, ma non marcia bene per un altro. Tutti i giorni bisogna
registrare qualcosa, aumentare il proprio livello di sensibilità.
Qualche volta guardo la sala da fuori, nascosto: è come un teatro. Tutte
le sere nel mio ristorante si va a fare una rappresentazione, ma
l’attore non è la cucina, gli attori sono i clienti. C’è il servizio, ci
sono i piatti, ma ogni tavolo è una rappresentazione. In sala si va a
creare qualcosa che non è scritto sul libro, è senza ricetta, è una
creazione tutti i giorni differente. Certo ci sono regole di base,
l’accoglienza, la mise en place, le temperature di servizio del vino, ma
tu puoi anche rispettare tutte le regole e fare un servizio sbagliato.
Il cliente è il centro dell’opera, e l’opera deve essere intorno al
cliente. Altrimenti è solo metodo, come quello dei fast food. Il
servizio può essere perfetto, ma si capisce che è un format; è un grande
servizio, ma non è fatto per il cliente. La magia si crea in sala, non
in cucina”.
Da più parti è finita sotto accusa la pratica della porzionatura.
“Se oggi io tento, come sto facendo, di impostare piatti che devono
essere finiti al tavolo, sapete che difficoltà ci sono? E non parlo di
un’anatra al torchio. Lasciamo stare la poesia. Se un cliente mi chiede
un insalata servita al tavolo, vi garantisco che è già un problema. Un
tempo c’erano maitre che se il cuoco stava male durante il servizio, si
toglievano lo smoking, si mettevano il grembiule e sostituivano il
cuoco. Il maitre era un cuoco che non cucinava, ma che sapeva parlare,
sapeva presentare.Il cuoco mediamente aveva la pancia, i capelli unti e
non parlava; poi gli chef hanno cominciato a viaggiare, a imparare
l’inglese, a saper comunicare, a saper stare davanti a una telecamera, e
c’è stata una rivoluzione: gli chef sono usciti dalla cucina. Anche
troppo”.
Tutti hanno sostenuto l’importanza di esperienze all’estero.
“È vero. Ma il mio consiglio, per maitre e cuochi, è di non fare subito
le grandi case estere, perchè prima bisogna maturare una propria
capacità di vedere le cose. Quando si hanno le capacità di capire e
selezionare, allora si possono fare le case estere, altrimenti c’è il
rischio di avere troppo imprinting da copia e incolla, si rischia di non
aver la propria personalità. Per il servizio, il riferimento rimane la
Francia, certamente, dove tu puoi vedere una certa scuola, una certa
organizzazione, un certo rispetto. Meno importante la Spagna, dove anche
a livello alto il servizio è troppo easy. Poi Inghilterra, che è sempre
una piazza importante, e Stati Uniti, dove come in nessun altro Paese
occorre sviluppare una testa da manager, e dove si trova, a tutti i
livelli, un bel servizio, svolto con piacevolezza, sorriso, cortesia.
Infine, un passaggio nel sud est asiatico: lo stile orientale del
servizio ha un’eleganza assoluta, anche se per noi è fin quasi
eccessivo, esagerato”.
In Italia, chi è al top nel servizio?
“In Italia ci sono ancora due o tre stili. Uno è quello del Pescatore,
la maison italiana per antonomasia. Poi c’è lo stile della Pergola, gli
unici in Italia ad aver scritto un libro”.
Qual è lo stile di Davide Scabin?
“Il mio è uno stile Combal. Fa attenzione a non essere nè troppo serio
nè troppo alla spagnola. Io credo che sia una buona interpretazione
contemporanea del servizio. E abbiamo un sistema per gli errori. Non è
vero che più si sale di livello, meno errori si fanno. Bisogna però
avere un sistema per trattarli. Fare l’errore non è mai il problema, è
sempre la gestione dell’errore l’importante. Il mio motto per il 2009,
che vale per ogni componente del ristorante è: quando si vuole ottenere
un certo livello di perfezione, cambiare cento dettagli solamente
dell’1% è più efficace e difficile che cambiare un solo particolare del
100%”.
Quali sono gli errori più gravi commessi in sala?
“Gli errori gravi sono quando qualcuno fa una domanda, su un piatto, su
una materia prima, e il cameriere non sa rispondere: significa che non
sa cosa sta portando, cosa sta consigliando. L’errore grave è quando non
si sa trattare la situazione, non si sa trattare un errore. Mantenere
la concentrazione è la cosa primaria, la formazione allo stress
psicologico è un allenamento fondamentale”.
In quale direzione andrà lo stile italiano del servizio?
“Innanzitutto, visto che gli uomini stanno lasciando degli spazi vuoti,
è un comparto dove le donne si stanno affermando molto velocemente. Se
la visione tradizionale francese tende a ostruire lo sviluppo della
donna in sala, almeno a grande livello, in Italia il servizio di sala è
molto sbilanciato verso un futuro femminile. Secondo me, nel creare lo
stile italiano, il cliente deve percepire che nel servizio ci sono
diversi ruoli, ma che tutti sono importanti, che tutti vanno a comporre
un puzzle, un sistema. È la differenza, in architettura, che c’è tra una
casa divisa in stanze e un loft, dove c’è un open space che ha
differenti architetture nello stesso spazio tra loro armonizzate. Questa
è la mia visione: non c’è più il maitre, il sommelier, le commis, c’è
il sommelier che, con un bel sorriso, può anche servire un piatto. È uno
stile molto difficile: è più facile gestire uno staff con divisioni ben
precise; mescolare i ruoli è più complicato. C’è qualcuno che può fare
qualcosa in più, ma tutti sono importanti. Io penso che la nouvelle
vague italiana possa iniziare da qui: allora si può creare un nuovo
pensiero della sala. Noi dobbiamo creare lo stile italiano, non possiamo
copiare lo stile francese”.